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Steve McCurry firma il Calendario Lavazza 2015: il lavoro del fotografo è oggetto di critiche

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Forse è amato più dal pubblico che dagli stessi fotografi ma negli ultimi anni la presenza di Steve McCurry nel panorama artistico nostrano si è fatta sempre più intensa. Tra retrospettive e nuovi progetti personali, la notorietà del fotografo americano in Italia sembra ineguagliata.

Lavazza, già forte di una longeva e assidua collaborazione con il fotografo all’interno del progetto Tierra! sugella definitivamente l’intesa (forse anche sfruttando l’ondata di popolarità che avvolge la figura di uno dei più noti fotoreporter del mondo) decidendo di dare un taglio nuovo a quello che rappresenta ormai il suo progetto pubblicitario di punta. Non più il solo intento estetico ma una missione umanitaria.

Per l’edizione 2015 nasce dunque The Earth Defenders – i difensori della Terra dedicato all’Africa e alle persone comuni che lavorano quotidianamente per salvaguardare e migliorare il futuro del continente. È innegabile il carattere impegnato del progetto, che devolverà i ricavi delle vendite del calendario a 10.000 Orti in Africa, iniziativa di Slow Food volta a raccogliere fondi per la coltivazione degli orti nelle scuole, nei villaggi e nelle periferie di 25 Paesi del continente. Ma il Web in questi giorni ha dato spazio a un grande dibattito che vede il lavoro fotografico di Steve McCurry mira di diverse critiche che gli rimproverano di aver costruito una serie di immagini troppo estetizzanti, in cui manca la vera essenza del reportage. Da qui sorge spontaneo un interrogativo: come va inteso un lavoro fotografico di questo genere?

Storicamente il lavoro su commissione ha permesso agli artisti di plasmare la propria creatività sulle richieste del committente. Dunque costretto da linee guida rigide, imposte da chi paga, il creativo deve soddisfare la richiesta senza abbandonare la propria visione delle cose. Se dunque un fotoreporter, che non è propriamente definibile artista ma creativo sì, decide di accettare un lavoro pubblicitario, non sta facendo reportage, ma sta facendo a modo suo pubblicità. Un prodotto commerciale è portato a rispondere, nella maggior parte dei casi, ai canoni imposti dalla comunicazione pubblicitaria.

Ecco quindi che la fotografia diventa saturazione dei colori e plasticità dei volumi. E in questo il Calendario Lavazza rimane coerente, perché di fotografia pubblicitaria si tratta, da vent’anni a questa parte. Dove risiede la vena reportagistica del calendario? Non nella fotografia.

Steve McCurry e Lavazza hanno deciso di veicolare l’idea documentaria tipica del reportage, affidandola all’aspetto didascalico della campagna: alle descrizioni dei personaggi ritratti, alle video interviste, piuttosto che alla tecnica fotografica, che risulta eccessiva nella post produzione digitale. Quindi via libera a Photoshop e allo stile patinato, perché non si tratta dell’ultimo reportage in Africa del fotoreporter, ma di una campagna, che al di là della missione umanitaria rimane pur sempre pubblicità.

Così, pur essendo la prima volta che Lavazza non propone un calendario con protagonisti modelle e modelli professionisti, tecnicamente i soggetti ritratti da McCurry posano in un set costruito ad hoc, con tanto di tazzina in mano, come a ricordarci che difficilmente il mondo pubblicitario incontra lo stile del reportage.

Gallery: il calendario Lavazza 2015

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Tim Hailand, la sperimentazione artistica e l’immaginario eroico in “Toile de Jouy”

Il lavoro artistico di Tim Hailand è estremamente accattivante. L’oggetto delle sue fotografie, sebbene di carattere figurativo, non è immediatamente riconoscibile. E’ solamente scrutando con attenzione che le sue immagini rivelano il loro contenuto.

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La serie Toile de Jouy è composta di fotografie dal cromatismo soffuso ma di carattere vigoroso, il cui principio portante è il presente, delle immagini fotografiche, che dialoga con un’atmosfera che proviene dal passato.

L’ispirazione è nata quando, in occasione di una residenza d’artista a Giverny ebbe l’occasione di vivere e lavorare nei luoghi che furono di ispirazione al pittore Claude Monet.
La Normandia è notoriamente un luogo piuttosto piovoso e contrariamente all’intento iniziale di immergersi negli spazi esterni, fra terreni e giardini sontuosi e stravaganti Tim ha dovuto trascorrere la maggior parte del tempo nella sua stanza.
Da qui nasce l’ispirazione, quasi automaticamente, poiché le pareti della stanza erano ricoperte da una carta in cotone bianco, con disegni pastorali di colore rosso, tecnicamente si tratta dallaToile de Jouy, prodotta nell‘éxagone a partire dalla metà del ’700.
Durante il suo soggiorno Tim si ritrova spesso a fissare quei disegni campestri della vita rurale francese d’un tempo e ne diventa presto ossessionato.
La sua creatività si è subito attivata: ha l’idea di stampare le sue fotografie su una carta simile che aveva acquistato, ma dopo vari tentativi falliti decide di reperire proprio quel tessuto specifico e di inserirlo direttamente nella sua stampante Epson.

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Il risultato è una collezione di immagini stupefacenti, in cui l’osservatore è portato a riflettere su ciò che si trova davanti: un prodotto che supera l’immagine fotografica e che si unisce agli elementi grafici del materiale su cui l’immagine è stampata. In questo modo i soggetti umani assumono tratti ambigui e astratti, caratterizzati da elementi grafici quasi come fossero individui ricoperti da tatuaggi o mascherati, truccati o travestiti. Un lavoro, quello di Tim Hailand, che porta a riflettere su una serie di dicotomie universali come l’interno e l’esterno, il reale ed il falso, la luce e il buio. Contrasti che possono riferirsi alla stessa natura umana, alla rappresentazione del maschile e del femminile, al concetto di ambiguità e alla coscienza della percezione visiva.

Una riflessione che gli ha consentito di investigare altrettanto profondamente lasperimentazione tecnica che risulta nella giustapposizione di immagini (quasi grezze dal punto di vista tecnico) e il mondo pittoresco dipinto sul materiale, creando un nuovo regno visuale e concettuale.

I soggetti scelti da Hailand, che siano artisti, atleti, attori, musicisti o modelli, rappresentano tutti in un certo senso delle figure eroiche. Ritrarli fotograficamente è parte di un processo creativo volto a definire una personale mitologia, quasi attribuendo loro uno status di eroe bucolico.

“I miei soggetti sono, per me, versioni idealizzate di loro stessi, cosi come la toile de jouy rapresenta una interpretazione romanticizzata della realtà pastorale nel 18esimo secolo Francese”.

Attratto da sempre dalla bellezza, Tim Hailand cerca di manifestare questo tratto all’interno delle sue opere ed ecco che il bello rappresenta la forza trainante del suo lavoro.

Profondamente distante dalla manipolazione digitale, questo artista cerca un rapporto fisico con le immagini. C’è una dimensione di casualità nelle sue opere che è dettata dall’eventualità della realizzazione.  Egli lascia che il materiale lo guidi come se fosse quest’ultimo a decidere come riempire gli spazi.

Oltre ai soggetti maschili di questa serie, sono particolarmente suggestivi anche i ritratti di Marina Abramovich.

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L’armonia universale nella fotografia di Masao Yamamoto

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C’è una dimensione per tutto. Tutto ha una propria misura. Anche le fotografie di Masao Yamamoto, tutte di piccolo formato, affinché possa tenerle interamente in una mano. Un artista caratterizzato da una particolare sensibilità; si ispira alla filosofia Zen e all’idea che lameditazione e la ricerca della bellezza giochino un ruolo essenziale nello sviluppo dell’essere umano. Le radici filosofiche e spirituali di Yamamoto contribuiscono al suo distintivo stile fotografico, nel quale l’ordinario è rivelato come qualcosa di straordinario.

Nato a Gamagory City nel 1957, nella prefettura giapponese di Aichi, Yamamoto si è avvicinato all’arte iniziando a studiare pittura ad olio, per poi decidere di esprimersi con il mezzo fotografico.

Le sue immagini più note hanno come protagonista la natura, attimi di vita ordinaria, paesaggi, dettagli di figure femminili, cieli, acqua e terra, piante e animali.

Le fotografie in piccola scala di Yamamoto sono oggetti nel senso più vero. La loro ragione d’essere è data dalla loro dimensione e dal fatto che richiedano un’osservazione così profonda che parta dalla vista e che si realizzi nella mente.

Le sue installazioni non hanno un principio. Per l’artista stesso la storia si costruisce attorno alla prima foto installata, alla stessa maniera in cui lo spettatore può cominciare il percorso di osservazione a partire da qualsiasi punto, perché Yamamoto non racconta di storie già scritte ma di associazioni estetiche e poetiche. Allora la storia inizia dove inizia il nostro sguardo. Significante e significato rivedono il loro senso e a volte si mescolano, a volte si distanziano. In questo modo la silhouette di una donna è associata ad una montagna; o ancora un dettaglio naturale, di fili d’erba che disegnano una croce contro un cielo animato da una sola nuvola chiara,  è associato ad un incrocio tra le acque bianche del mare che ingoiano la terra in penombra.

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Ogni luogo che viviamo è fatto di piccoli dettagli che non percepiamo, di eventi che accadono ma che semplicemente non notiamo. Masao Yamamoto cerca di catturarli nelle sue istantanee, trasformando la banale quotidianità, in un qualcosa dal più ampio significato.

Il carattere estetico delle sue immagini è qualcosa di unico: è sottile, raffinato e potente al tempo stesso. È il risultato di un lavoro estremamente accurato che sfrutta tecniche manuali di diverso genere. Sperimenta con la superficie delle fotografie, dipingendo su esse, logorandone i bordi o tingendole in bagni di tè. Così il tempo sembra averle marcate.

Probabilmente influenzato da aspetti della filosofia orientale che vedono al centro dell’armonia universale un rapporto tra il tutto e il singolo, il lavoro di Masao Yamamoto si sviluppa in serie di immagini che possono essere fruite in gruppo ma che possono anche parlare per sé, distaccate dalla concezione seriale.

Quando Yamamoto scatta una fotografia coglie questa armonia: è avvolto da un sottile flusso d’aria, respira il profumo della terra, osserva la lieve luminosità che gli oggetti restituiscono ai suoi occhi e ci regala immagini che sembrano ricordi inventati: offuscati ma familiari e inspiegabilmente intimi.

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Le fotografie di Masao Yamamoto fanno parte di collezioni internazionali, ospitate presso musei come il Victoria & Albert Museum di Londra; Il Philadelphia Museum of Art; Il Museum of Fine Arts di Houston e l’ International Center of Photography di New York.

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“A Natural Order” di Lucas Foglia

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Lucas Foglia ha una particolarità. Vive su un camper e gira l’America dal 2007 per raccontare storie “off-the-grid” che letteralmente vuol dire fuori dalla rete. Dalla rete sociale, dalla rete della globalizzazione.
Ha attraversato i luoghi più isolati del Tennessee, Virginia, Kentucky, Carolina del Nord e Georgia. Immergendosi completamente nelle vite delle persone che incontrava. Racconta la sua storia fatta di immagini nel libro “A Natural Order”.

Questo artista ha 29 anni, è cresciuto in una fattoria nel Long Island. I suoi genitori hanno abbracciato il back-to-the land movement negli anni ’60. Già sensibile ai temi ambientalistici, Lucas ha vissuto la sua adolescenza nel pieno dell’urbanizzazione americana, quando la terra intorno alla sua fattoria veniva trasformata in cemento. Ma i suoi genitori hanno continuato a coltivare e preservare il loro cibo, in uno stile del tutto autosufficiente, in linea con il movimento.

L’autore descrive le sue fotografie come l’interpretazione di una vita indipendente. Sono l’intimo ritratto di persone che, motivate da problemi ambientali, da credi religiosi, e dalla recessione economica globale, costruiscono le loro case usando materiali naturali, ottengono l’acqua dalle fonti vicine, coltivano e allevano il proprio cibo. Da questa serie scaturisce la gioia sincera della bellezza della natura, ma anche la difficoltà di vivere in questo modo.

“A Natural Order” è il ritratto di un’altra America, che reagisce alle preoccupazioni ambientali abbandonando le città e le periferie per vivere in completo isolamento.

L’approccio di Lucas Foglia è quello tipico di ogni reporter, incontrare le persone, stabilire una relazione con esse in modo che le fotografie siano il risultato di quel rapporto.

La fotografia per me è un meccanismo per indagare le cose. Volevo vedere se mi sarei imbattuto nell’assoluta indipendenza di queste comunità, o in individui con stili di vita completamente autosufficiente.
Ho trovato persone che vivono senza denaro, che ricavano case dagli alberi o che bevono acqua fresca dalle fonti di montagna. Ma non ho trovato nessuno che era del tutto isolato. Molti di loro avevano cellulari, computer portatili, pannelli solari con accumulatori elettronici. Anche le comunità più isolate geograficamente, che non avevano neppure un indirizzo di recapito.”

Insomma, l’uomo che non si dissocia completamente ma che seleziona i fattori essenziali della società per utilizzarli bene e non abusarne. È come se queste comunità partissero dallo stato attuale per regredire etornare alla terra.
I colori armonici e naturali sono anche iconici: fanno delle immagini, composizioni creative.
La serie è una visione pastorale e anche idealizzata di una vita sostenibile. Del resto Foglia non si trattiene dall’evidenziare l’innegabile continuità che queste comunità hanno con lo stile di vita contemporaneo.

Lucas Foglia ha scattato più di 5000 fotografie in cinque anni, ma nel libro sono stati pubblicati solamente 45 scatti. Dopo un rigoroso lavoro di editing, solo le foto migliori ridefiniscono la storia. La selezione della selezione per raccontare attraverso la pura bellezza.

Profondo e provocatorio, Lucas Foglia è l’autore di uno dei migliori libri fotografici dell’anno.

 

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“Explosure” di Tierney Gearon – Le suggestioni narrative della doppia esposizione

Le sue fotografie sono state definite “manipolatrici, sconvolgentemente ambigue e perverse”. Quando la sua serie “I Am a Camera”, con protagonisti i suoi due bambini, è stata esposta a Londra, la polizia ha imposto di smontare l’esposizione.
Per tutti i nostri lettori che aspettano una dose rivitalizzante di Fotografia Contemporanea ecco le immagini di Tierney Gearon, personali, innocenti e pure.

“Explosure” di Tierney GearonNata ad Atlanta, nel 1963, Tierney Gearon è un’acclamata fotografa contemporanea. Ha ottenuto un elevato successo di critica e di pubblico per il suo stile intenso e colorato. Premiata con importanti riconoscimenti per le sue immagini di potente impatto visivo, Tierney non si è accostata alla fotografia in maniera tradizionale. Lo scopo della sua vita era sempre stato quello di diventare madre. Dopo essere stata modella e commercial photographer per anni, il suo matrimonio è misaremente fallito. Così, da allora ha rivolto l’obiettivo della sua fotocamera sulla sua famiglia. Scattando durante varie gite con la sua famiglia in giro per il mondo fu scoperta da Charles Saatchi dell’omonima galleria di Londra. E’ lui che la lancia sotto i riflettori dell’arte contemporanea nel 2001 quando il suo lavoro viene inserito nel progetto della Saatchi Gallery “I Am A Camera”. Il suo lavoro diventa una controversa ma sensazionale scoperta.

I progetti “The Mother Project” e “Daddy, Where are you” sono entrambi caratterizzati da un intimo sguardo sulle relazioni familiari dell’artista, in particolare su sua madre, affetta da problemi mentali. La fotografa non solo cattura la nuda intensità del loro rapporto ma celebra anche lo spirito libero della donna.

Il suo lavoro è stato esibito in svariate eminenti gallerie del mondo e importanti musei, tra cui: Gagosian Gallery, Yossi Milo, Ace Gallery, The Parrish Art Museum, e la Scottish National Portrait Gallery.

Il suo lavoro più recente, una pubblicazione di 24 pagine dedicata a 13 donne vincitrici di Oscar, intitolato Holliwood Heroines, è stato pubblicato con il New York Times magazine.

Nel 2009 Tierney Gearon spinge più in là la sua fotografia: realizza un progetto in doppia esposizione, producendo una serie di scatti in pellicola che suggeriscono incredibili narrazioni in uno stile del tutto innovativo. “Explosure”, il titolo del progetto, è caratterizzato da un’estetica suggestiva e introspettiva. I colori sono accesi ma la luce è opaca, quasi vintage. La composizione, evidentemente ricercata, è realizzata attraverso associazioni o contrasti di tipo cromatico o tematico e, a volte, entrambi i fattori contribuiscono alla tecnica narrativa.
La partecipazione emotiva dell’artista è velata dall’imperturbabile racconto di un universo onirico. Accade che lo spettatore si lasci proiettare in una storia di quotidianità infantile, naturale ed istintiva. Explosure è un diario dell’anima, discreto ed esuberante al tempo stesso, in linea con il controsenso tipico di ogni interiorità.

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Cristina Nuñez – il potere dell’autoritratto

Convertire il dolore in arte. È questo lo scopo della terapia fotografica di Cristina Nuñez.
Perché l’autoritratto fotografico ha un potere terapeutico. Nel momento in cui realizziamo un autoscatto siamo allo stesso tempo autori, soggetti e spettatori. Quando riusciamo a materializzare il nostro dolore ce ne liberiamo: dal momento che ne facciamo un oggetto distinto esso non è più parte di noi, possiamo osservarlo con i nostri stessi occhi, prenderne coscienza e superarlo.

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Yann Arthus-Bertrand, l’atelier del maestro inaugura a Parigi

Il prossimo 18 Luglio inaugurerà a Parigi una galleria d’arte dedicata completamente alla fotografia. Basta un nome per capire di cosa parliamo: Yann Arthus-Bertrand, che per chi non lo conoscesse è il sinonimo di fotografia nell’exagone. Non solamente per l’indiscutibile livello artistico e tecnico, ma anche perché unico membro (insieme a Lucien Clergue) della rinomata Académie des Beaux-Arts ad occupare il seggio, tutto nuovo, dedicato all’arte della fotografia francese. Una posizione che gli conferisce di diritto lo status di leggenda.

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L’erotismo emotivo di Mustafa Sabbagh

L'erotismo emotivo di Mustafa Sabbagh

Il corpo umano, quello bello perché imperfetto, consacrato in momenti di forte impulso emotivo.
L’opera d’arte come manifestazione dell’io tenero e violento. La fotografia di Mustafa Sabbagh sprigiona erotismo surreale. Tale perché fuori dall’ordinaria percezione visiva ma anche e soprattutto perché si rivela inaspettatamente erotico.

Non semplice fotografia di moda ma l’esaltazione del corpo e della pelle, concepita in un’ estetica che proviene dall’intimità.
Sabbagh vuole incidere sulle proprie creazioni, lontano dalle convenzioni della fotografia da copertina. Vuole qualcosa che superi la forma e che si compia nello spirito, lo trova nel rapporto incondizionato che instaura col soggetto, di fiducia e confidenza.

In una dimensione luministica onirica il corpo è al limite della compostezza. Nella controversa stravaganza della posa (anti)plastica, la fotografia di Mustafa Sabbagh agisce d’istinto.
Scatti unici che sono composizioni da analizzare. La potenza figurativa che ne scaturisce attira e immobilizza l’osservatore. Egli riflettere a lungo, in un’inspiegabile attrazione verso il bello non convenzionale, supera presto l’impatto dell’illeggibilità e non trova appagamento.
Perché nel suo universo visuale tutto resta ambiguo, nei ritratti come nei paesaggi. Ma nell’ambiguità Sabbagh opera il suo processo di purificazione, che ricalca l’intimità dell’altro nel suo concetto più esteso. Infatti egli ama i difetti dell’altro: è cantore della diversità, dell’imperfezione caratterizzante che conferisce il grado di bellezza audace, che mette a disagio.

I suoi dittici di paesaggio e figura umana vivono di associazioni gentili e silenziose, puramente ideali.
E nei ritratti singoli la maschera regala al fotografo l’occasione per appropriarsi della nuda sincerità del soggetto, ma anche di essere la guida rassicurante che adopera delicatamente la vulnerabilità dell’altro.
Il soggetto mascherato rinuncia al consueto rapportarsi con la realtà, per lui non esistono più barriere né tabù e Sabbagh lo trascina in uno spazio emozionale che diventa impressionabile fotograficamente, quindi anche tangibile, sensibile.
Nella loro normale serietà i soggetti di Sabbagh sembrano percorsi da un brivido. Un impeto selvaggio si manifesta in una dimensione di calma incantevole.
I sensi sono in tensione, si avverte l’odore della pelle, si può respirare quell’intima bellezza e anche goderne.

Il risultato supera la fotografia: è il compimento artistico dell’emozione che diventa installazione e il mezzo fotografico è per Musafa Sabbagh lo strumento adatto per realizzare un’opera d’arte complessa e viva. Che dica la verità anche nella finzione.

 Ogni uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità.
Oscar Wilde

 
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I Paesaggi Collaterali di Antonio Ottomanelli

Le conseguenze della guerra raccontate attraverso uno sguardo esterno ma perlustrativo, che penetra con la stessa efficacia di un doloroso dettaglio. Sono le immagini di Antonio Ottomanelli, che testimonia con la serie «Collateral Landscape» la situazione urbana postbellica in regioni del Medio Oriente come Iraq, Afganistan e Palestina in cui la distruzione degli spazi è all’ordine del giorno.

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Google celebra Saul Bass, graphic designer americano

Il più versatile e innovativo graphic designer del ventesimo secolo.
Google celebra oggi, mercoledì 8 Maggio 2013, il talento e la creatività di Saul Bass.

Google celebra Saul Bass

Nato a New York 93 anni fa, Bass fu regista, progettista grafico, fotografo, illustratore e pubblicitario, nonché il più richiesto creatore di loghi per le più grandi aziende nordamericane.

La storia del cinema ha, come titoli di testa, i suoi più riusciti progetti grafici: Bonjour Tristesse (1958), Vertigo (1958),The Shining (1980), Schindler’s List (1993) e Love in the Afternoon (1957) con Audrey Hepburn e Gary Cooper.

Il doodle, ideato per l’occasione, cita molte delle sue idee in un efficace percorso visivuale che riassume il genio dell’artista.

La caratteristica peculiare del suo stile, che fu anche la sua innovazione, era l’estrema essenzialità delle forme che insieme alla significativa e mai banale scelta di montaggio, gli permisero di trasformare le sequenze introduttive dei film in vere e proprie opere d’arte. Se i titoli di testa dei film non sono più una serie ordinata di parole bianche in dissolvenza, il cinema che conosciamo oggi deve ringraziare Saul Bass.

Ha segnato il ricordo visivo delle pellicole a cui ha preso parte, rendendo indimenticabili anche le sue collaborazioni con alcuni tra i più grandi registi del secolo, tra cui Alfred Hitchcock, Otto Preminger, Billy Wilder, Stanley Kubrick e Martin Scorsese.

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L’arte è un romanzo – la straordinaria storia delle parole che diventano immagini

Ho bisogno di sognare. Raccontami una bella storia, una favola. Voglio dipingermi un mondo personale, voglio poterlo creare da me.
Anche se non sono più un bambino le storie mi piacciono ancora. Le leggevo, da piccolo. Le leggevo da solo le favolette; mia madre non me le raccontava, ma le piaceva regalarmi libri. In verità le parole non mi interessavano, mi raccontavo da solo le storie in base alle figure. E le raccontavo anche a chi mi stava vicino. Non mi sento speciale per questo. È l’istinto di tutti i bambini. Non mi sento speciale per aver passato l’infanzia a raccontare storie incredibili agli altri. È un bisogno di tanti quello di scriversi la propria storia, il proprio romanzo nella testa.

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I Tableaux Vivants di Bill Gekas

Sarà a causa della mia passione per la luce, quella di Rembrandt, e i panneggi fiamminghi ma navigando nella rete la mia attenzione è stata catturata da una fotografia che rievocava proprio questi due elementi. Una bambina intenta a pelare patate, con lo sguardo perso nel vuoto, e tutt’intorno quell’atmosfera tipica di un quadro del seicento.
Ed ecco qui, ho trovato l’australiano Bill Gekas, la cui serie di ritratti della sua piccola figlioletta di 5 anni merita mille volte più di tanti altri glamourfotografi di cui avrei potuto parlarvi.

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Babele, l’inizio della fine

“… l’uno non comprenderà la parola dell’altro e siano essi dispersi fra i paesi e i
popoli, e non vi sia più, così, fra di loro, un solo modo di intendersi,
fino al giorno del giudizio”.

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Incontro con Denis Rouvre al Salon de la Photo di Parigi

Dietro ogni fotografia c’è un silenzio. Un altro tempo si insedia di cui non conosciamo bene la natura, e che sembra volgere l’istante all’eternità.

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La Chirurgia Cosmica di Alma Haser

Un progetto che potremmo definire di “nuove vedute”. La particolarità di questo lavoro riguarda lo sguardo, e il volto intero, dei protagonisti dei ritratti di Alma Haser.

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‘Stay Cool’. L’estate americana di RJ Shaughnessy

« Questa è la storia della giovinezza, della sua provenienza, del perché esista, e di quanto velocemente sfugga se non vi prestiamo attenzione ».

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Il melodramma cinematografico negli scatti di Alex Prager

Alex Prager, un nome pseudomaschile per identificare una donna, ma soprattutto il suo mondo tutto al femminile.

Il melodramma cinematografico negli scatti di Alex PragerCaliforniana e autodidatta, nasce nel ’79 a Los Angeles, e si sta affermando da qualche anno come una delle migliori rivelazioni dell’arte contemporanea americana. Le sue immagini raccontano di donne, delle loro possibili sofferenze e dei loro sentimenti, rivelati attraverso lo stereotipo di un’epoca, quella degli anni sessanta. Il suo lavoro è caratterizzato da un’estetica estremamente ricercata, a cui si mescola la dimensione culturale pop d’oltreoceano che tutti conosciamo. Questa giovane fotografa e regista crea il suo personale e intenso mondo onirico, coltivandolo in un terreno psichico al limite dell’inquietudine.
“Inquietudine” è la parola chiave per interpretare lo stile di questa artista, insieme a “cinematografico”; esse rappresentano i due principali elementi d’ispirazione per il suo lavoro. Si tratta delle atmosfere conturbanti di Hitchcok; di un’ambientazione coloristica proveniente da Fellini, che come dice lei stessa influenza la sua visione sulla saturazione del colore e sulla luce; ma anche di una dimensione melodrammatica tipica di Douglas Sirk, il re del melò americano.

In questo modo, nelle sue fotografie Alex raccoglie tutte le tensioni del melodramma cinematografico, facendo apparire le sue immagini come dei veri e propri fotogrammi di una pellicola. Sembra quasi di vedere degli istanti di un film che ti invogliano a guardarlo per intero. In questo modo lo spettatore si trova ad immaginare che la scena rappresentata sia parte di una storia, o che qualcosa debba accadere, finendo per ideare un film personale.

Continuando ad osservare le sue fotografie si nota come esse non siano influenzate solo dall’ambiente cinematografico, come è il caso nelle inquadrature, ma tra i contrasti del suo cromatismo e nell’uso del flash si può rintracciare l’influenza della grande Cindy Sherman, e esaminando anche l’ambientazione cogliamo certamente il nome di William Eggleston; ma allo stesso modo c’è qualcosa di nuovo e inedito nelle foto di Alex che le permette di offrire uno spettacolo del tutto personale. Forse è quel qualcosa che sembra agitarsi sotto la superficie delle sue immagini, sotto la pelle truccata di quelle donne che appaiono serene e sorridenti ma che forse nascondono un profondo turbamento. “Mi piacciono le cose quando nascondono qualcosa, quando  non sono perfette, ma non voglio semplicemente creare qualcosa di inquietante, voglio che le immagini siano belle per chi le guarda”.

In un approccio sottile e mai ovvio, ciò che Alex cerca di ottenere è quindi un insieme di bellezza e inquietudine, trasformando immagini ordinarie in qualcosa di straordinario in cui tutto ha un’apparenza vagamente artificiale, un mondo dove tutto è reale e irreale allo stesso tempo. Un po’ come il nostro, solo impercettibilmente diverso.

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I ritratti senza tempo di Beth Moon

Esistono pochi luoghi su questo mondo che siano intoccati dal tempo; Beth Moon li conosce tutti.
Davanti alle sue foto ci si sente un po’ come in un luogo fantastico, i soggetti naturali hanno un sapore così seducente, e quelli umani sono avvolti in uno sfumato quasi irreale.

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‘WONDERLAND’. Il mondo incantato di Kirsty Mitchell

“La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi”, lo sa bene Kirsty Mitchell, ‘fanciulla’ inglese che attraverso il mezzo fotografico è riuscita a creare un mondo di fiabe del tutto personale.

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“Saturday Night” – Storie di un Hotel

In un silenzio palpitante che riempie la scena, c’è una donna che si trucca, un ragazzino che gioca, coppie che praticano il bondage, qualcuno che si impicca, i drammi, le gelide pulsioni sessuali e ogni sorta di vizio umano.

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