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UYW issue 29 – A bimestral photographic journal

Screenshot-2014-02-03-00.22.55Heidi Romano è una fotografa Fine Art di Melbourne, Autralia e dal 2009 è anche fondatrice e curatrice di UYW  – Unless You Will, rivista online di fotografia, pubblicata ogni due mesi, che raccoglie e presenta le opere di artisti fotografi da tutto il mondo.

Il nuovo numero, il ventinove, online dal 1 Febbraio, presenta una sottile riflessione sul mezzo fotografico, che ci tengo a condividere con voi. Si tratta dell’annullamento del gesto fotografico tradizionale, per la creazione di nuove esperienze visive, basando l’idea sul concetto di rivalutazione del materiale.
Una pratica familiare all’arte contemporanea, nelle installazioni e nelle arti visive,  che ha avuto il suo inizio con il poliedrico e visionario Andy Warhol che del riutilizzo e della reinvenzione delle immagini ha fatto la sua poetica nella propria produzione artistica visuale. Oggi questa pratica caratterizza il lavoro di importanti artisti, che spesso monopolizzano i maggiori musei del mondo: Christian Boltansky, l’italiano Francesco Vezzoli e Gerhard Richter tra tutti.

Qui tradotto per voi l’editoriale di Heidi Romano che illustra il lavoro.

UYW 29 // Febbraio 2014

Ogni nuovo progetto inizia con una idea che tenta di prendere forma nella nostra mente – il bisogno di investigare ed esplorare un sogno vago, forti sperimentazioni e spesso anche errori.

Questo numero riguarda lo sperimentare, il giocare con nuovi processi e il creare connessioni uniche con il passato; lavorare con gli archivi e fotografare le stesse foto svariate volte per creare immagini suggestive.

Non si tratta più solamente delle fotografie in sé, ma del processo dietro di loro. Si tratta di interrogare il mezzo fotografico come lo conosciamo e con cui siamo familiari.

Spesso usando immagini ritrovate o rivalutando scatti realizzati da qualcun altro, questi artisti applicano la loro visione reinventando il  mezzo. I loro progetti mostrano la fotografia come un medium che non è più tradizionale e diretto.

Andate ed esplorate l’incredibile lavoro di

Amy Friend
Dafna Talmor
Melinda Gibson
Daisuke Yokota and
Noah Wilson

 

Potete scaricare il numero 29 di UYW a questo link


dareallaluce

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Eric Ogden – A Half-Remembered Season

Nato e cresciuto nel Michigan, Eric Ogden è un fotografo americano conosciuto maggiormente per il suo lavoro da ritrattista di artisti del mondo della musica e del cinema. Celebri sono i suoi ritratti di Kevin Bacon, Penelope Cruz, Green Day e Kanye West.

Per la pillola fotografica di questo mercoledì, vogliamo presentarvi un suo lavoro più introspettivo, più personale.
La serie A Half-Remembered Season è un suggestivo racconto fatto di momenti silenziosi: in ogni immagine della serie il tempo sembra congelato, l’azione sospesa, la narrazione interrotta. Ogni scatto ci lascia riflettere su cosa può essere accaduto prima di quell’istante immortalato e cosa accadrà dopo. E’ questo che rende la fotografia di Ogden così seducente.

I colori sono saturi e la luce è egregiamente cinematografica. I paesaggi ricordano lo stile del leggendario William Eggleston che abbiamo citato in occasione dell’articolo dedicato ad Alex Prager il cui stile può essere utile per instaurare un paragone con Eric Ogden.

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I ritratti senza tempo di Beth Moon

Esistono pochi luoghi su questo mondo che siano intoccati dal tempo; Beth Moon li conosce tutti.
Davanti alle sue foto ci si sente un po’ come in un luogo fantastico, i soggetti naturali hanno un sapore così seducente, e quelli umani sono avvolti in uno sfumato quasi irreale.

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Il mutare delle forme – “Dust” di Olivier Valsecchi

Come sospesi in un universo alternativo, in una dimensione indefinita dove il buio culla lo spazio, i corpi penetrano l’assenza gravitazionale.

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Evgen Bavcar – Carezze di Luce

Hai mai provato a scattare una fotografia ad occhi chiusi?

“Io non tocco gli oggetti ma li “guardo da vicino”. Offro alla vostra vista la trascendenza delle mie immagini che esprimono lo sguardo spirituale del mio terzo occhio”.

Questa è la frase che mi ha accolto all’entrata della mostra di Evgen Bavcar, fotografo non vedente di origine slovena naturalizzato francese.
Proprio così: fotografo non vedente.
Forse tu che leggi ti starai chiedendo proprio ora come sia possibile una cosa di questo tipo.
Chi non possiede un “sentimento della fotografia” potrebbe sostenere che sia un’azione lasciata all’avventura, uno sparare a caso attraverso una semplice arma fotografica, ma non è così: questo artista-filosofo è ispirato dagli odori e dai suoni del mondo, è guidato dal tatto e da un senso speciale che si chiama “vista interiore”. Uno squarcio sull’anima attraverso cui si possono rimettere in discussione le definizioni di tecnica e di stile della stessa fotografia.
Le sue fotografie non colpiscono per un particolare tecnicismo, piuttosto si è affascinati e anche sorpresi dalle atmosfere singolari, direi quasi eteriche che i suoi giochi di luce disegnano sulla carta.

La questione che si pone dinanzi alle sue opere è un’accettazione dell’altro, un’accettazione della diversità, di un diverso modo di guardare, di un diverso modo di fotografare, non quello consueto. Bavcar sfida le convenzioni per cui “vedere” e “guardare” siano la stessa cosa.
Per lui “il buio è uno spazio”, come intitola la sua personale esposizione presso il museo di Roma in Trastevere, le sue fotografie consistono in visioni oniriche, ma sorprendentemente reali, di oggetti illuminati da fasci di luce.
E’ facile intuire come sia irrilevante per una persona non vedente scattare di giorno o di notte, all’interno o all’esterno, per questo Bavcar usa una fonte di luce artificiale per evidenziare le forme dei soggetti, e annusando una pianta, una donna, un oggetto, toccandoli anche, li illumina nel buio, perché è così che lui mostra a noi “vedenti” le sue immagini mentali che sono aspetti invisibili del reale, e di ciò che sfugge ai nostri occhi.

“L’uomo con il martello, diceva un celebre inglese, vede chiodi ovunque. Io non sono che un artista che cerca di vedere ovunque delle immagini, anche se queste gli sono proibite”.

Quello che noi vediamo è ciò che lui ha in mente, immagini surreali e naturali al tempo stesso che lui può restituire alla nostra vista grazie al mezzo fotografico, è un luogo che oscilla tra l’indefinibile essenza dell’essere e del non essere. Noi siamo i suoi occhi e, come dice lui stesso, egli può guardare le sue stesse fotografie grazie alle descrizioni e alle emozioni che noi gli raccontiamo.

Bavcar non vede le immagini, ma produce immagini: questo sì, è un meraviglioso paradosso dell’Arte.